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In bocca alla balena

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In bocca alla balena

Il ventre delle balene si nutre dei sogni e delle paure degli uomini, diventando il luogo emblematico in cui riposano storie bibliche e racconti allegorici, antichi miti e leggende, fantasmi mostruosi.

Giona

In un episodio dell’Antico Testamento, Giona viene chiamato da Dio a compiere una missione a Ninive, città pagana e corrotta, alla quale però risponde fuggendo in barca assieme ai suoi compagni. Presto si scatena una violenta tempesta e Giona, riconoscendo di esserne la causa, chiede agli altri marinai di buttarlo in mare.
Il profeta inghiottito dalle onde sparisce nelle fauci di un grande pesce dentro al cui ventre rimane per tre giorni e tre notti. Di fronte al suo pentimento, Dio lo perdona facendolo rigettare a riva.

La permanenza nella pancia del pesce diviene un simbolo della resurrezione, dogma fondamentale della religione cristiana.

Il ventre della balena

Ma può esistere una specie marina capace di inghiottire un uomo senza ucciderlo?

Anche se la risposta è un evidente no, fece un certo scalpore la presunta vicenda di James Bartley, il pescatore che a fine Ottocento, al largo delle Falkland, venne inghiottito da un capodoglio, riuscendo tuttavia a sopravvivere per trentasei ore.
La notizia fu riportata da diversi giornali.

La lapide del pescatore, morto 18 anni dopo, reca l’epigrafe: "James Bartley, un moderno Giona".

Nella celebre fiaba di Collodi, anche Geppetto finisce nelle viscere di una balena, o almeno questo è secondo la lettura disneyana.
Passano due anni prima che lo sfortunato falegname possa rivedere Pinocchio, anche lui catturato dallo stesso pesce. Ma la balena che fortunatamente soffre di asma con un potente starnuto li scaraventa fuori dall’enorme bocca, restituendo involontariamente a entrambi la libertà.

In un capitolo de “La storia vera”, uno dei testi più strabilianti della letteratura greca, concepito dalla fantasia surreale di Luciano di Samosata, si legge di una balena che inghiotte il protagonista della e altri cinquanta compagni d’avventura, durante un viaggio verso terre inesplorate, fin oltre le Colonne d’Ercole. 
La combriccola riesce però a fuggire dalla bocca del mostro, tenuta spalancata con due pali, dopo aver appiccato un incendio.
“Come fummo dentro la balena, dapprima era buio, e non vedevamo niente; ma dipoi avendo essa aperta la bocca, vediamo una immensa caverna larga e alta per ogni verso, e capace d'una città di diecimila abitanti. Stavano sparsi qua e là pesci minori, molti altri animali stritolati, e alberi di navi, e ancore, e ossa umane, e balle di mercanzie”.

Moby Dick

Il viaggio in mare è forse la più potente metafora della vita e della morte, la rappresentazione simbolica del dualismo senza tempo tra bene e male.

E Moby Dick, capolavoro della narrativa nordamericana di Hermann Melville - John Huston trasse un film nel 1956 - pubblicato in Italia nel 1932 con la traduzione di Cesare Pavese, è uno degli esempi letterari più alti e rappresentativi del filone marinaresco, e un’avvincente descrizione della biblica lotta contro il Male.

La storia fu ispirata da un fatto realmente accaduto nel 1820, l’affondamento della baleniera americana Essex, sotto i colpi micidiali di un mostruoso capodoglio, e l’odissea dei naufraghi che, per sopravvivere, uccisero e mangiarono dodici loro compagni, tirandone a sorte i nomi.

La trama del libro si impernia sul “duello” tra il folle e misterioso capitano Achab, prigioniero delle proprie ossessioni, e Moby Dick, una gigantesca balena bianca, fiera e combattiva, che ha strappato un arto al capitano, e che incarna la forza primordiale di una natura matrigna.

L’esito del romanzo è noto: “Dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, o maledetta bestia!”.

La stessa drammatica potenza la troviamo rappresentata negli spettacolari quadri dedicati alla caccia alle balene (Whalers 1845) eseguiti dal pittore inglese William Turner nella sua maturità artistica, particolarmente apprezzati da Melville.

Profumi e corsetti

Ma l’interesse dell'uomo per questo mammifero ha motivazioni ben più prosaiche di quelle artistiche e letterarie, e sono di tipo economico.

La balena è una miniera inesauribile di materie prime, estremamente redditizia. Oltre alla sua carne, si usa anche tutto il resto: dalle interiora trasformate in resistenti corde di racchette, ai fanoni per la confezione di corsetti per signore, tasti di pianoforte intelaiature di canoe, ammortizzatori per le carrozze. E ancora inchiostri, profumi, cuoio, alimenti per animali.
L’olio di balena si trova nella margarina, nel linoleum, nel sapone, nella glicerina utilizzata per la fabbricazione di esplosivi.
Ma soprattutto, l'olio serve a illuminare le strade prima dell’avvento dell’elettricità.

Nel Settecento, Londra poteva contare su cinquemila lampioni, alimentati da quel pregiato liquido, per illuminare le proprie strade, come nessun’altra città al mondo.

Nell’appassionante libro “Leviatano ovvero la balena” (Einaudi 2013), il giornalista inglese Philip Hoare, scrive che nel 1833, solo negli Stati Uniti, la filiera della pesca occupava settantamila uomini e valeva settanta milioni di dollari, dati che si raddoppiano in soli dieci anni.

L'olio è la posta!

Dunque, si può ragionevolmente sostenere che la fortuna delle nazioni colonialiste sia stata costruita sulla tratta degli schiavi per la lavorazione della canna da zucchero e sulla caccia commerciale alle balene: "Vogate ragazzi! L'olio, l'olio è la posta!". (Moby Dick).

Nell’XI secolo i baschi sono i primi a cacciare la balena franca boreale, relativamente semplice da catturare perché più lenta delle altre e perché galleggia dopo l’uccisione.

Poi vennero gli olandesi, inglesi, americani e norvegesi, tutti contro tutti per la supremazia, concentrati su capodogli e megattere.

A fine Ottocento l’attività aveva oramai raggiunto una scala industriale, si poteva contare su navi a vapore e arpioni esplosivi che consentivano di attaccare anche le specie più veloci come la balenottera azzurra. Ma nel Novecento i norvegesi fanno di meglio, introducono il cannone spara-arpioni.
Uccidere le balene non è mai stato così facile.

Se molti ricordano l’armatore greco Aristotele Onassis per il controverso rapporto con la divina Maria Callas e il matrimonio assai chiacchierato con l’ex first lady Jacqueline Kennedy, forse non tutti sanno che una parte delle sue favolose ricchezze arrivava dalla caccia illegale alle balene, avendo depredato per anni in modo spietato aree marine protette.

La mattanza, protratta per trecento anni, ha violato i rifugi più sicuri fino al santuario dell’Antartide e portato le balene quasi all’estinzione. Uno sterminio insensato che conduce alla perdita della memoria ancestrale della Terra.

Nella prospettiva miope e autodistruttiva consacrata al danaro, l’uomo sembra essere pronto a sacrificare la biodiversità del Pianeta.

Le balene festeggiano. Anzi, no

Che i cetacei stessero diminuendo era chiaro già a metà Ottocento, senza che questo influisse su un commercio sempre assai redditizio.

Ma ecco che nel 1859 a Titusville, in Pennsylvania, si scava il primo pozzo petrolifero. L'illuminazione pubblica può passare dalle vecchie lampade ai lampioni a gas, con l'inevitabile crollo del prezzo dell'olio.
Nel giro di pochi decenni diventa più conveniente ricavare energia e sostanze di sintesi dalla raffinazione del greggio.

Le balene possono finalmente tirare un primo respiro di sollievo.

Saranno gli anni Ottanta del Novecento a segnare uno spartiacque più sostanziale grazie all'adozione del testo dell'International Whaling Commission (IWC) che, per la prima volta, vieta la caccia commerciale alla balena in tutto il mondo.
Non trattandosi però di una legge internazionale, i singoli Stati rimangono sovrani, e possono decidere singolarmente se aderire o ignorare la moratoria ratificata nel 1986.

Dal 1 luglio 2019, senza più nascondersi dietro la copertura della ricerca scientifica, il Giappone fa un clamoroso passo indietro e abbandona l'IWC.  
Una decisione incomprensibile se si considera che la caccia alla balena non sembra più così vantaggiosa, né risponde alla richiesta di carne in costante calo, anche in quei Paesi che, per ragioni storiche e di isolamento geografico, erano grandi consumatori.
Basti pensare che negli anni Sessanta il Paese del Sol Levante ne richiedeva 200mila tonnellate all'anno contro le 5mila attuali.

Oltre a una consapevolezza ecologica sempre più diffusa e radicata, probabilmente è la quantità di metalli pesanti e inquinanti presenti nella carne e nel grasso a scoraggiarne il consumo.

E intanto, mentre il mondo tiene il fiato sospeso per il coronavirus, mentre la pandemia impone una riflessione radicale sulle conseguenze devastanti delle attività umane sull'ambiente, e una ridefinizione etica del rapporto con la natura, ecco che le baleniere norvegesi, come già le giapponesi e islandesi, tornano in mare per una nuova, insensata stagione di caccia fuori dal tempo, pronte a far fuori quei 1278 esemplari, corrispondenti alla quota autorizzata dal governo.

Tutti pazzi per il whale-watching

Più redditizia e sostenibile sembrerebbe la pratica del whale-watching, un’idea partorita a metà degli anni Cinquanta dall’intraprendente signor Chuck Chamberlain. Fu lui il primo a intuire il potenziale economico di questa attività, sfruttando il passaggio dei cetacei nei mari di fronte alla California. E non si sbagliava.

Da allora l’osservazione delle balene è diventata relativamente popolare in tutto il mondo, inclusa nei pacchetti proposti da molti operatori che promuovono l’ecoturismo, con un fatturato di tutto rispetto.

Ma nemmeno questa pratica sembra essere del tutto inoffensiva.
Ne dubitano alcuni cetologi che hanno registrato l’abbandono di luoghi di sosta normalmente frequentati dai mammiferi marini, probabilmente stressati dalla presenza ravvicinata dei numerosi turisti.

Ancora una volta, l’uomo antepone sé stesso imponendo le proprie esigenze, che siano di ordine economico o di puro svago, ignorando l’unico monito che arriva dalla natura, quello di essere semplicemente rispettata.